16 Mag Corte di Cassazione: il consenso dei lavoratori non rende lecito il controllo a distanza (Sent. n. 22148/2017)
La Suprema Corte di Corte di Cassazione interviene nuovamente in materia di consenso e controllo a distanza dei lavoratori affermando, in contrasto con il suo precedente orientamento, che l’assenso delle rappresentanze sindacali o, in mancanza di accordo, il provvedimento autorizzatorio della Direzione Territoriale del lavoro, nell’ambito della procedura di installazione di impianti di videosorveglianza all’interno dei luoghi di lavoro, sono essenziali e non sostituibili con il consenso dei lavoratori…
Con la sentenza in commento la III Sezione Penale della Corte di Cassazione, discostandosi dalla Sent. n. 22611/2012, chiarisce che il consenso eventualmente prestato dai lavoratori all’installazione di un impianto di videosorveglianza non ha alcuna efficacia scriminante in ordine al reato previsto dall’art. 4 della L. n. 300/1970 (di seguito “Statuto dei lavoratori” o anche solo “Statuto”) in combinato disposto con l’art. 38 della stessa legge e con gli artt. 114 e 171 del D.lgs. n. 196/2003 (“Codice Privacy”).
Con riferimento alla questione di fatto, l’imputata venne condannata in primo grado perché, in qualità di amministratore unico, aveva installato, all’interno del suo esercizio commerciale, un impianto di videosorveglianza senza alcun accordo con le rappresentanze sindacali e senza che fosse intervenuta alcuna autorizzazione da parte della Direzione Territoriale del lavoro.
Avverso detta sentenza, l’imputata ricorre per Cassazione deducendo che la stessa Sezione della Corte, nella Sent. n. 22611/2012 (di seguito anche solo “sentenza Banti”), aveva affermato che il reato di cui all’art. 4 dello Statuto non sussiste nel caso in cui manchi un accordo con le rappresentanze sindacali ma, allo stesso tempo, venga stata riscontrata la presenza del consenso all’installazione di un impianto di videosorveglianza da parte dei lavoratori (consenso scritto nella sentenza Banti ed orale nella sentenza in commento).
La sentenza da ultimo citata afferma che non può essere negata validità a un “consenso chiaro ed espresso proveniente dalla totalità dei lavoratori e non soltanto da una rappresentanza”. Secondo la sentenza Banti, una difforme interpretazione dell’art. 4 citato contrasterebbe con le stesse regole della logica, giacché se lo scopo della norma è quello di tutelare i lavoratori da un subdolo controllo a distanza e se tale rischio viene escluso dal consenso di organismi collettivi a tutela dei lavoratori, allora e “a fortiori, tale consenso deve essere considerato validamente prestato quando promani proprio da tutti i dipendenti”. Pertanto, un consenso validamente prestato da parte dei lavoratori, diretti titolare del bene giuridico tutelato, escluderebbe l’integrazione dell’illecito di cui all’art. 4 dello Statuto, poiché lo stesso avrebbe un’efficacia scriminante del fatto tipico contestato.[1]
È proprio questo il passaggio che viene criticato e superato con la sentenza in commento.
In primis, la Cassazione chiarisce che, in tema di abusi mediante impianti di videosorveglianza, sussiste una continuità dell’illecito tra la precedente e la nuova formulazione dell’art. 4 dello Statuto, il quale è stato recentemente modificato attraverso l’art. 23 del D.lgs. n. 151/2015.[2] Pertanto, nonostante le modifiche normative, la condotta de qua rimane sostanzialmente immutata in virtù del rinvio espresso agli artt. 4 e 38 dello Statuto contenuto nell’art. 171 del Codice Privacy.
Prosegue poi la Suprema Corte ribadendo la necessità, ai fini dell’installazione di apparecchiature dalle quali possa derivare anche solo la possibilità di un controllo a distanza dei lavoratori, di un preventivo accordo con le rappresentanze sindacali dei prestatori di lavoro o, in mancanza, di un provvedimento autorizzatorio della Direzione Territoriale del lavoro, riaffermando così la necessità di un intervento esterno nel processo dell’installazione di un sistema di videosorveglianza.
Sul punto, la Corte dichiara che non sono condivisibili le affermazioni contenute nella sentenza Banti. Il ragionamento da ultimo seguito dalla Cassazione fa perno sull’intrinseca posizione di debolezza in cui si trova il lavoratore “sia nella fase genetica che funzionale del rapporto di lavoro”, per cui l’installazione di impianti di videosorveglianza senza la preventiva consultazione delle rappresentanze sindacali produce una lesione degli interessi di cui le stesse organizzazioni collettive sono portatrici.
Tale ragionamento è frutto della logica per cui i lavoratori, nell’ambito dei rapporti di lavoro, si trovano in una posizione debole nei confronti del datore di lavoro, situazione dalla quale sorge la necessità di un intervento esterno a supporto dei diritti dei prestatori di lavoro, il quale avrebbe la funzione di verificare che gli impianti di cui si vuole dotare il datore di lavoro siano conformi agli scopi, alle finalità[3] e ai limiti previsti dallo Statuto dei lavoratori.
La sentenza in commento ribadisce con forza che la procedura prevista dall’art. 4 è da ritenersi inderogabile e che tale orientamento è rinvenibile all’interno dei provvedimenti emanati dall’Autorità Garante per la protezione dei dati personali; l’Autorità infatti afferma che le operazioni di trattamento dei dati personali “devono avvenire nel rispetto di quanto espressamente disposto dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, nel testo novellato dall’art. 23 del d.lgs. 14 settembre 2015, n. 151, nonché dei principi previsti dal Codice, come anche dettagliati dalle “Linee guida per posta elettronica ed internet” adottate dal Garante con provvedimento n. 13 del 1° marzo 2007”.[4]
Secondo la Cassazione, il ragionamento seguito nella sentenza Banti non farebbe altro che peggiorare la posizione dei lavoratori e rafforzare la posizione del datore di lavoro, il quale potrebbe “far firmare a costoro [ossia ai lavoratori], all’atto dell’assunzione, una dichiarazione con cui accettano l’introduzione di qualsiasi tecnologia di controllo per ottenere un consenso viziato dal timore della mancata assunzione”. Soluzione che, secondo i giudici di legittimità, si pone in palese contrasto non solo con i principi ispiratori della normativa posta a tutela dei diritti dei lavoratori, ma anche con la stessa ratio sottesa alla previsione di una sanzione penale a tutela degli stessi.
La Corte di legittimità chiarisce inoltre che il bene giuridico tutelato dalla disposizione de qua ha natura collettiva e non individuale; pertanto un’eventuale consenso proveniente dai singoli lavoratori potrebbe essere inteso come consenso viziato e/o invalido, in quanto non proveniente dai soggetti legittimati a prestarlo.
Questo ultimo passaggio consente così alla Corte di affermare che “il consenso o l’acquiescenza del lavoratore non svolge alcuna funzione esimente, atteso che, in tal caso, l’interesse collettivo tutelato, quale bene di cui il lavoratore non può validamente disporre, rimane fuori dalla teoria del consenso dell’offeso”.
In conclusione, la rilettura del bene giuridico tutelato della disposizione contenuta nello Statuto dei lavoratori permette alla Corte di affermare che l’installazione di un sistema di videosorveglianza senza alcun preventivo accordo con le rappresentanze sindacali o senza alcun provvedimento autorizzatorio proveniente dall’Autorità Amministrativa, esporrà altresì il Titolare del trattamento alle sanzioni previste dall’art. 38 dello statuto dei lavoratori per comportamento antisindacale[5].
[1] Seppur non espressamente, la Corte utilizza il parametro indicato nell’art. 50 c.p. secondo il quale “Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne”. Per cui il consenso, libero e manifestato all’esterno, dovrà provenire dal soggetto titolare dell’interesse protetto dalla norma.
[2] La continuità tra gli illeciti continua a sussistere in quanto entrambe le formulazioni della norma richiedono un preventivo accordo sindacale o l’autorizzazione amministrativa.
[3] Art. 4, co. I, Statuto dei Lavoratori: “Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale […]”
[4] Garante per la protezione dei dati personali, Provvedimento del 3 novembre 2016 [doc. web n. 5971482].
[5] La violazione dell’art. 38 dello Statuto è punita con l’ammenda da € 154,94 a € 1.549,37 o con l’arresto da 15 giorni ad un anno. Nei casi più gravi le pene dell’arresto e dell’ammenda sono applicate congiuntamente.